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Cuore: le strategie di prevenzione e l’infarto

Comincia a battere circa due settimane dopo il concepimento per non abbandonarci più per tutta la vita: il cuore è il muscolo più importante del nostro corpo, il suo “motore”.

Contraendosi e rilasciandosi, infatti, distribuisce in tutto l’organismo il sangue che trasporta l’ossigeno indispensabile a nutrire tutti i tessuti e porta via con sé scorie e sostanze di scarto: attraverso l’atrio sinistro riceve il sangue ossigenato dall’apparato respiratorio e, attraverso il ventricolo sinistro, lo pompa a organi e tessuti; da questi ultimi riceve, nell’atrio destro, il sangue ricco di anidride carbonica che, attraverso il ventricolo destro, invia ai polmoni dove lascerà l’anidride per fare il pieno di ossigeno. A dividere gli atri dai ventricoli e questi ultimi dai vasi sanguigni troviamo quattro valvole, che impediscono che il sangue pompato dal cuore fluisca in senso contrario.

Il cuore ha quindi un ruolo cruciale, che meriterebbe tutte le nostre attenzioni, eppure spesso seguiamo uno stile di vita poco sano, che permette a vari fattori di mettere a rischio la salute cardiaca e anche quando il corpo stesso ci manda i segnali di allarme, tendiamo a sottovalutarli: così le malattie cardiovascolari continuano a essere la causa del 44% delle morti in Italia. La più comune, responsabile di ben il 28% dei decessi, è la cardiopatia ischemica, ovvero l’infarto miocardico, che si verifica quando al cuore arriva un apporto insufficiente di sangue e ossigeno (come il resto dell’organismo, infatti, anche il muscolo cardiaco ne necessita per funzionare).

Vediamo con la dottoressa Letizia Bertoldi, cardiologa dell’Unità Operativa di Cardiologia Clinica, Interventistica e Unità di Cura Coronarica di Humanitas, come tenere sotto controllo la salute cardiovascolare e le strategie di prevenzione adottabili, con una particolare attenzione all’infarto miocardico.

Le strategie di prevenzione

Se le soluzioni mediche e chirurgiche nel campo della cardiologia sono sempre più efficaci, la prevenzione rimane comunque il primo importante passo contro le malattie del cuore.

Si distinguono due tipi di prevenzione cardiovascolare:

  • primaria, quando è messa in atto da soggetti sani, che non hanno cioè una malattia cardiaca ma devono comunque evitare di esporsi al rischio di svilupparla (tanto più se hanno una familiarità con problematiche cardiache o altri fattori di rischio legati allo stile di vita). Uomini e donne dovrebbero attuare tale prevenzione sin da giovani;
  • secondaria, quando riguarda coloro che sono stati già colpiti da un infarto o da altre patologie cardiovascolari, quindi considerati, da un punto di vista clinico, malati cronici.

Le strategie preventive passano essenzialmente dall’assunzione di determinate abitudini di vita che consentono di modificare alcuni fattori di rischio e da un opportuno e corretto controllo periodico della salute cardiaca.

I fattori di rischio cardiovascolare

I fattori che possono esporre al rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare si possono distinguere in non modificabili o modificabili.

I primi sono quei fattori che non si possono contrastare e includono:

  • familiarità: avere familiari stretti con malattie cardiovascolari predispone a un maggior rischio di soffrirne a propria volta;
  • età: il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari aumenta all’avanzare dell’età;
  • sesso: in età giovanile e fertile, le donne sono più protette rispetto agli uomini nei confronti di aterosclerosi (patologia degenerativa dei vasi arteriosi) e infarto; il rischio diventa però analogo a quello maschile dopo la menopausa.

I fattori di rischio modificabili, molti dei quali risultano tra loro concatenati, sono, invece, quelli sui quali è possibile intervenire adottando buone abitudini. Comprendono:

  • ipercolesterolemia: un alto livello di colesterolo e di altri grassi nel sangue aumenta la probabilità di andare incontro ad aterosclerosi, il processo degenerativo a carico delle arterie a sua volta alla base di diverse patologie cardiovascolari (infarto, ictus, claudicatio intermittens);
  • ipertensione arteriosa: un’alta pressione sanguigna determina una maggiore probabilità di sviluppare aterosclerosi e causa un incremento del lavoro cardiaco portando, nel tempo, a un malfunzionamento del cuore;
  • diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue danneggia le arterie e favorisce l’aterosclerosi; il diabete inoltre si accompagna spesso a ipertensione arteriosa;
  • alimentazione errata: una dieta molto ricca di calorie e grassi contribuisce ad aumentare i livelli di colesterolo e di altri grassi nel sangue; se troppo ricca di sodio o troppo povera di potassio può concorrere a determinare ipertensione arteriosa; un consumo eccessivo di alcolici, oltre a favorire l’innalzamento dei valori pressori, danneggia il cuore. Una dieta scorretta e sbilanciata, inoltre, può impedire di tenere sotto controllo i livelli della glicemia e, in generale, può favorire sovrappeso e obesità;
  • obesità e sovrappeso: un elevato peso corporeo implica un maggiore sforzo per il cuore e favorisce la comparsa di ipertensione; è inoltre un fattore di rischio per il diabete. Particolarmente pericoloso per la salute cardiovascolare è l’accumulo di grasso corporeo addominale (un girovita elevato);
  • sedentarietà: uno stile di vita sedentario favorisce l’instaurarsi di sovrappeso e obesità, mentre un’attività fisica regolare, soprattutto di tipo aerobico, migliora la capacità del cuore di pompare il sangue, aiuta a tenere sotto controllo la pressione arteriosa e migliora l’umore, contrastando i fattori di stress;
  • fumo: il fumo di sigaretta determina danni cronici ai vasi arteriosi, come perdita di elasticità e lesioni alle pareti che possono favorire la comparsa di aterosclerosi; contribuisce, inoltre, a determinare ipertensione; infine, risulta dannoso per il colesterolo “buono”, favorendo quindi l’incremento della forma “cattiva”;
  • stress: una condizione di stress cronica è uno dei fattori che può portare a ipertensione; può anche modificare eventuali placche aterosclerotiche nelle coronarie, causandone la rottura e favorendo così un evento come l’infarto.

La prevenzione primaria: le abitudini che fanno bene al cuore

La prevenzione si attua modificando lo stile di vita per andare a incidere positivamente sui fattori di rischio modificabili fin qui descritti.

In particolare, sono buone abitudini da far proprie:

  • seguire un’alimentazione corretta e bilanciata, basata sulla dieta mediterranea, quindi che prediliga vegetali, cereali, legumi, pesce e carni magri, povera di sale e che preveda un consumo moderato di carne rossa, e una forte limitazione di cibi grassi, fritti e dolciumi, scegliendo, infine, come condimento, l’olio extravergine d’oliva;
  • non fumare o smettere di farlo, eventualmente anche ricorrendo al supporto dei centri antifumo specializzati;
  • tenere sotto controllo il colesterolo e la pressione arteriosa (aspetti che approfondiremo tra poco);
  • tenere sotto controllo la glicemia o, in caso di diabete conclamato, la malattia, seguendo le opportune terapie prescritte dal medico;
  • mantenere uno stile di vita attivo, svolgendo regolare attività fisica, soprattutto di tipo aerobico (per esempio almeno tre volte alla settimana per 45 minuti, svolgere attività come correre, camminare a passo sostenuto, nuotare o andare in bicicletta), compatibilmente con la propria età e il proprio stato di salute generale;
  • cercare di raggiungere e mantenere un buon peso corporeo. Si può avere grossolanamente un’idea del proprio peso ideale calcolando l’indice di massa corporea (BMI o Body Mass Index): peso in kg/altezza in metri al quadrato. Un indice con valore minore di 25 segna il peso ideale, mentre un valore maggiore di 25 suggerisce sovrappeso/obesità. Se necessario, per raggiungere il peso ideale è utile affidarsi all’aiuto medico.
  • limitare, per quanto possibile, le situazioni che possono essere fonte di stress, specialmente se tendono a protrarsi nel tempo. Nei casi più seri ci si può affidare a un aiuto specialistico.

La gestione del colesterolo

Uno dei punti fondamentali della prevenzione cardiovascolare è rappresentato dalla corretta gestione dei livelli di colesterolo. Come abbiamo visto, infatti, l’ipercolesterolemia, cioè un elevato livello di colesterolo nel sangue, rappresenta un fattore di rischio cardiovascolare.

Colesterolo e ipercolesterolemia

Il colesterolo è una sostanza che appartiene alla famiglia dei lipidi, cioè dei grassi. In parte prodotto dall’organismo, soprattutto dal fegato, e in parte introdotto con l’alimentazione, è un elemento di vitale importanza, poiché è fra i componenti delle cellule.

Circola nel sangue trasportato da strutture chiamate lipoproteine, che si differenziano in:

  • LDL ovvero lipoproteine a bassa densità (Low Density Lipoprotein), che portano il colesterolo dal fegato alle cellule dei tessuti;
  • HDL ovvero lipoproteine ad alta densità (High Density Lipoprotein), che rimuovono il colesterolo in eccesso dai tessuti per portarlo al fegato dove poi viene eliminato.

Questo grasso diventa pericoloso per la salute cardiovascolare quando raggiunge livelli eccessivi nel sangue (ipercolesterolemia), per cui finisce per accumularsi nelle arterie, depositandosi sulle pareti e causando lesioni (placche) che possono ispessire e irrigidire tali vasi dando quindi origine al fenomeno noto come aterosclerosi. Con il tempo le placche aterosclerotiche possono arrivare a restringere le arterie fino a ostruirle completamente, bloccando il passaggio del sangue e determinando, a seconda dei vasi interessati, ictus (a livello cerebrale), infarto (a livello cardiaco), claudicatio intermittens (a livello degli arti inferiori).

Esiste una forma di ipercolesterolemia ereditaria o familiare, frutto di predisposizione genetica, ma più spesso il rischio di avere colesterolo alto riguarda in particolare soggetti in sovrappeso, obesi, sedentari e che seguono una dieta scorretta.

I valori da tenere d’occhio

I problemi di salute si hanno quando è in eccesso, in particolare, il colesterolo LDL, per questo definito anche “cattivo”, mentre un livello più alto di HDL (colesterolo “buono”) è ritenuto positivo.

In generale, comunque, si parla di ipercolesterolemia quando il valore del colesterolo totale nel sangue supera i 240 mg/dl.

Per monitorare i livelli di colesterolo totale e dei singoli LDL e HDL presenti nel proprio sangue, e arrivare a individuare un’eventuale ipercolesterolemia, è necessario sottoporsi a un prelievo a digiuno.

I valori desiderabili, in soggetti sani, sono:

  • Colesterolo totale inferiore a 200 mg/dl
  • Colesterolo LDL inferiore a 115 mg/dl
  • Colesterolo HDL superiore a 50 mg/dl

Come tenere il colesterolo sotto controllo

Per ridurre il rischio di sviluppare ipercolesterolemia è opportuno svolgere attività fisica regolare, seguire una dieta sana ed equilibrata ed evitare il fumo di sigaretta.

Anche nel momento in cui dagli esami risultano valori elevati di colesterolo, il primo passo è in genere un cambiamento dello stile di vita, a partire da quello che si porta a tavola. Esistono, infatti, alimenti che aiutano ad abbassare il colesterolo LDL.

In particolare, per chi ha problemi di colesterolo alto si consiglia di:

  • Consumare almeno 2-4 volte a settimana porzioni normali di cereali, preferendo quelli integrali, e di legumi; ogni giorno, inoltre, 2-3 porzioni di verdura e 2 di frutta. Tutti questi alimenti, infatti, non solo sono privi di colesterolo, ma possono aiutare a ridurre quello in eccesso. I vegetali ricchi di fibre contribuiscono anche a ridurre l’assorbimento del colesterolo alimentare a livello intestinale;
  • Consumare almeno 2 o 3 volte a settimana pesce, consigliato per la particolare composizione del suo grasso, purché cucinato in modo salutare (al vapore, al cartoccio, alla griglia, non fritto). Molluschi e crostacei, invece, non devono essere consumati più di una volta a settimana;
  • Preferire tagli magri di carne e il latte scremato o parzialmente scremato a quello intero;
  • Limitare al minimo il consumo di insaccati, formaggi e uova, che contengono quantità piuttosto elevate di grassi e che influenzano negativamente il tasso di colesterolo;
  • Preferire olio extravergine d’oliva e in generale oli vegetali polinsaturi e monoinsaturi a burro, lardo e strutto: i grassi saturi di origine animale provocano l’aumento dei livelli di colesterolo, mentre quelli insaturi di origine vegetale sono in grado di ridurlo;
  • Preferire metodi di cottura che non richiedono grassi aggiunti, come la bollitura, la cottura a vapore, la cottura al microonde o la grigliatura.

Se le modifiche dello stile di vita non sono sufficienti, il medico può valutare di prescrivere una terapia farmacologica per abbassare i livelli di colesterolo (in genere mediante l’uso di statine).

La gestione della pressione arteriosa

Altro fattore di rischio cardiovascolare cruciale è l’ipertensione arteriosa, ossia un’elevata pressione sanguigna: se persistente, può, a lungo andare, associarsi a progressiva restrizione dei vasi sanguigni, perdita di elasticità delle pareti delle arterie e affaticamento e ispessimento del cuore, con un conseguente danneggiamento di tutto l’apparato cardiovascolare.

Pressione e ipertensione

Quando si parla di pressione sanguigna, si fa riferimento alla pressione che il sangue esercita sulle pareti delle arterie quando scorre all’interno dei vasi spinto dall’attività contrattile del cuore, pressione che è determinata dalla quantità di sangue pompata e dalla resistenza delle arterie al flusso.

Si distinguono:

  • Pressione sistolica (o massima): quella prodotta dalle contrazioni del cuore per pompare il sangue delle arterie. Di norma si assesta su un valore pari o inferiore a 130 mmHg (millimetri di mercurio).
  • Pressione diastolica (o minima): quella che si misura tra due contrazioni, quando il cuore è carico del sangue da pompare. I valori normali sono pari o inferiori a 85 mmHg.

Quando la pressione sanguigna supera costantemente i valori normali si parla di ipertensione arteriosa: sistolica, quando solo la massima è aumentata; diastolica, se sono alterati i valori della minima; sisto-diastolica se sia la minima sia la massima sono superiori alla norma.

L’ipertensione in generale interessa circa il 30% della popolazione adulta di entrambi i sessi e, nelle donne, è più frequente dopo la menopausa. L’ipertensione sistolica isolata, con massima elevata e minima bassa, è più frequente negli anziani, in conseguenza dell’invecchiamento, mentre la diastolica isolata è più frequente nei giovani.

Occorre poi distinguere tra:

  • Ipertensione arteriosa primaria (o essenziale): priva di una causa precisa, identificabile e curabile, è il risultato dell’alterazione dei meccanismi complessi che regolano la pressione (sistema nervoso autonomo, sostanze circolanti che hanno effetto sulla pressione), anche in conseguenza dell’interazione di diversi fattori di rischio (es: dieta scorretta, soprattutto ricca di sodio o povera di potassio, alcolici, fumo, obesità e sovrappeso, sedentarietà, stress). Rappresenta circa il 95% dei casi di ipertensione e interessa principalmente gli adulti;
  • Ipertensione arteriosa secondaria: è la conseguenza di malattie, congenite o acquisite, che interessano i reni, i surreni, i vasi, il cuore. Riguarda il restante 5% dei casi e può colpire anche i più giovani, con valori pressori alti, difficili da controllare con i farmaci, ma che spesso si normalizzano individuando e rimuovendo la malattia sottostante (se possibile).

In alcuni casi l’aumento dei valori di pressione arteriosa dipende dall’uso (talvolta dall’abuso) di alcune sostanze tra cui, per esempio, la liquirizia, gli spray nasali, il cortisone, la pillola anticoncezionale, la cocaina e le amfetamine. In questi casi, sospendendo l’assunzione di tali sostanze, i valori pressori tornano alla normalità.

I valori da tenere d’occhio

Spesso l’ipertensione non dà sintomi, o si manifesta con sintomi non specifici (es: mal di testa, soprattutto mattutino, stordimento o vertigini, ronzii nelle orecchie, alterazioni della vista, sangue dal naso). Nelle forme secondarie possono esserci sintomi più specifici, ma legati alla malattia di base che scatena l’aumento dei valori pressori.

Per questo, per individuare una condizione di ipertensione, occorre procedere alla misurazione della pressione arteriosa: con uno strumento specifico, lo sfigmomanometro (ne esistono varie versioni, alcune anche adatte a un uso domestico), si individuano il valore della massima e della minima, in millimetri di mercurio.

L’ipertensione arteriosa si diagnostica quando il valore della pressione sistolica supera i 140 mmHg e quello della diastolica i 90 mmHg.

Quando, invece, la pressione sistolica si assesta tra i 130 e i 139 mmHg e la diastolica tra gli 85 e gli 89 mmHg, si parla di pre-ipertensione, condizione che funge da campanello d’allarme e che deve spingere ad attuare da subito modifiche delle proprie abitudini per ridurre i fattori di rischio (come suggerito in precedenza) e non sviluppare in futuro l’ipertensione.

Sempre per l’assenza di sintomi evidenti, la pressione arteriosa va controllata periodicamente: a partire dai 35 anni, o prima negli individui che hanno familiarità, sono consigliati due controlli all’anno per individuare eventuali alterazioni nei valori.

Va precisato che i valori possono variare sensibilmente in base all’attività svolta dal soggetto e al momento in cui viene misurata: una persona che, per esempio, sta compiendo un’attività fisica faticosa o è in stato di agitazione avrà una pressione più alta di una in stato di quiete.

Se la diagnosi è confermata, in genere possono essere prescritti esami ulteriori per capire se l’ipertensione possa aver già danneggiato i vasi, anche per definire con precisione il profilo di rischio cardiovascolare dei pazienti e la terapia più adatta.

Come tenere la pressione sotto controllo

Per far rientrare i valori pressori nella norma è imprescindibile correggere lo stile di vita: seguire una dieta povera di sale (ridurre di 5 grammi il consumo quotidiano di sale sembra permettere la riduzione dei valori pressori di 5 mmHg), caffè, alcolici, e ricca di frutta e verdura; evitare il fumo, svolgere attività fisica moderata e costante (come 30 minuti al giorno di camminata veloce o di cyclette); raggiungere e mantenere un peso corporeo sano ed evitare, per quanto possibile, le fonti di stress prolungato, sono tutti provvedimenti preziosi da attuare non solo in fase preventiva ma anche in caso di ipertensione conclamata.

Nelle forme di pre-ipertensione o quando gli incrementi pressori sono lievi e non ci sono altri fattori di rischio cardiovascolare (come diabete o ipercolesterolemia), anzi, gli interventi sullo stile di vita potrebbero essere sufficienti per riportare la pressione alla normalità.

Se, invece,  l’ipertensione è moderata o seria e/o in presenza di altri fattori di rischio, alla correzione dello stile di vita va associata una terapia farmacologica specifica, da assumere spesso per molti anni (se non per tutta la vita).

I farmaci disponibili sono molti e con meccanismi di azioni diversi. Comprendono:

  • ACE inibitori, antagonisti del recettore per l’angiotensina II o sartani, inibitori diretti della renina: abbassano la pressione interferendo con la produzione di alcune sostanze circolanti che compongono il cosiddetto sistema renina-angiotensina-aldosterone. Ogni classe di farmaci è attiva in un punto diverso di questo sistema.
  • Calcio antagonisti: controllano la pressione inducendo vasodilatazione.
  • Diuretici: aiutano l’organismo a smaltire acqua e sali minerali (sodio)
  • Alfa e beta bloccanti: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo periferico della pressione arteriosa
  • Simpaticolitici ad azione centrale: agiscono a livello dei meccanismi nervosi di controllo centrale (sistema nervoso centrale) della pressione arteriosa.

La terapia viene personalizzata dal medico sulla base delle caratteristiche del paziente, quindi in seguito a un percorso diagnostico approfondito: in alcuni casi può essere sufficiente l’uso di un solo antipertensivo, in altri può essere necessaria un’associazione di molecole. Ogni paziente risponde in modo diverso alle singole terapie, per cui trovare il o i farmaci efficaci e meglio tollerati può richiedere un po’ di tempo.

La terapia può anche richiedere assestamenti negli anni.

Sussistono anche casi di ipertensione arteriosa resistente, cioè che non viene controllata neppure con l’associazione di numerosi farmaci antiipertensivi. Per queste forme, negli ultimi tempi sono state proposte nuove soluzioni non farmacologiche, come la denervazione delle arterie renali.

La prevenzione secondaria

Come abbiamo avuto modo di ricordare, la prevenzione secondaria si rivolge a persone che hanno già avuto una malattia cardiovascolare. SI tratta di soggetti che, anche se guariti da quella specifica condizione sono clinicamente considerati malati cronici, per i quali una nuova patologia cardiovascolare potrebbe avere un impatto ancora più grave.

La prevenzione secondaria richiede sempre, in associazione alla terapia generalmente prescritta dopo il primo evento cardiovascolare, le buone abitudini già descritte in precedenza, perché i fattori di rischio rimangono gli stessi. In molti casi, per seguire correttamente il nuovo stile di vita, occorre affidarsi alla guida del medico, per esempio per stilare un programma di attività fisica adeguato alle particolari condizioni di salute del soggetto o per gestire in maniera ottimale le situazioni di stress.

La normalizzazione della pressione assume ancora più importanza, così come la gestione dei livelli di colesterolo che, nei soggetti che hanno già avuto un evento cardiovascolare va mantenuto a valori più bassi di quelli considerati desiderabili per i soggetti sani. Per questo spesso vengono previste terapie farmacologiche specifiche antipertensive e anticolesterolo.

Inoltre, pilastro della prevenzione secondaria, nei pazienti che hanno avuto un evento cardiovascolare come ictus o infarto, è la cardioaspirina: questo farmaco è un antiaggregante, ovvero riduce l’aggregabilità delle piastrine e il rischio di trombi, aiutando, così a prevenire le recidive e a gestire tutte le altre terapie che si utilizzano in ambiente cardiovascolare.

Anche una metanalisi, diretta e coordinata da Humanitase pubblicata sulla rivista scientifica Lancet, ha confermato la cardioaspirina come riferimento per la prevenzione cardiovascolare secondaria: sono stati analizzati 9 studi realizzati negli ultimi 30 anni, che hanno coinvolto oltre 40 mila pazienti, in cui la cardioaspirina è stata confrontata con un’altra classe di antiaggreganti più recenti, le tienopiridine. I risultati hanno evidenziato che i benefici della terapia con tienopiridine in termini di impatto sulla mortalità e sul rischio di un nuovo infarto o ictus sono marginali rispetto a quelli con la cardioaspirina.

Attenzione però: se la cardioaspirina è fondamentale nella prevenzione secondaria, quando tutti i pazienti devono assumere un antiaggregante, non è invece indicata nella prevenzione primaria, anche perché non è priva di effetti collaterali (soprattutto a livello gastrico).

Come tenere sotto controllo il cuore

La prevenzione passa anche dal monitoraggio regolare dello stato di salute del cuore e delle arterie, sin da giovani e con più attenzione quando l’età avanza. Oltre al controllo periodico della pressione e dei livelli di colesterolo che abbiamo già affrontato, in particolare, è importante monitorare la frequenza cardiaca. Vediamo anche quando è bene rivolgersi al medico e i principali esami che permettono di approfondire la salute cardiovascolare.

Come misurare la frequenza cardiaca

Un parametro importante per monitorare la salute del cuore è rappresentato dalla frequenza cardiaca, ovvero il numero di battiti (pulsazioni) che il cuore compie in un minuto, regolato dal sistema elettrico.

La frequenza cardiaca si può misurare in ambito domestico:

  • usando misuratori elettronici (oggi spesso integrati all’interno degli smartwatch) come un cardiofrequenzimetro o un saturimetro (quest’ultimo permette anche di valutare il livello di ossigeno presente nei vasi arteriosi);
  • sentendo il polso arterioso carotideo, cioè appoggiando e premendo leggermente i polpastrelli di indice, medio e anulare al lato del collo, sotto la mandibola, dove è possibile percepire le pulsazioni dell’arteria carotide e contando il numero di battiti in un minuto (se il battito è ritmico si possono contare le pulsazioni in trenta secondi e moltiplicare per due);
  • sentendo il polso arterioso radiale, cioè appoggiando i polpastrelli sul lato interno del polso in prossimità del pollice, dove è possibile percepire le pulsazioni dell’arteria radiale e contando come già descritto.

Una misurazione e una valutazione più precisa, però, si hanno dal medico sottoponendosi a un elettrocardiogramma.

Una frequenza cardiaca che rientra nell’intervallo di normalità presenta dei valori che vanno da un minimo di 60 ad un massimo di 100 battiti al minuto a riposo. Al di sotto del valore minimo si parla di bradicardia, al di sopra della soglia massima si parla di tachicardia.

Non sempre bradicardia e tachicardia sono sintomo di una patologia: esistono condizioni, come per esempio l’attività sportiva o il sonno, che possono aumentare o diminuire per un certo periodo di tempo la frequenza cardiaca. Anche l’età può influire sui risultati: in un soggetto giovane una frequenza cardiaca bassa può essere semplicemente indice di allenamento fisico costante, mentre con il passare degli anni può esserci una tendenza all’aumento della frequenza, per cui in un anziano una diminuzione notevole della stessa deve destare più preoccupazione.

Quando rivolgersi al medico

Ci sono dei segnali che il corpo invia che possono essere spia di un problema cardiaco che merita attenzione medica. In particolare, è importante rivolgersi a uno specialista in presenza di:

  • dolore al petto,
  • cardiopalmo (palpitazioni), una percezione irregolare del battito cardiaco, accelerato o che “perde colpi”
  • piccole aritmie, cioè alterazioni del ritmo cardiaco
  • fiato corto (dispnea) dopo sforzi o quando si è in posizione supina
  • sincope, cioè improvvisa perdita di coscienza senza alcuna avvisaglia
  • riduzione della capacità fisica con comparsa di stanchezza anche dopo sforzi che in precedenza si facevano senza grossi problemi.

In generale, inoltre, se si hanno dubbi sulla salute del proprio cuore è sempre bene sottoporli all’attenzione medica.

In assenza di sintomi o campanelli d’allarme è comunque opportuno fare una prima visita cardiologica dopo i 40 anni di età, per valutare il proprio profilo di rischio cardiovascolare. Una periodica visita cardiologica di controllo, con le tempistiche indicate dallo specialista, è poi solitamente consigliata in particolare a pazienti con fattori di rischio cardiovascolare quali età avanzata, ipertensione arteriosa, diabete o familiarità per patologie cardiache. 

La visita cardiologica

La visita dallo specialista cardiologo è sempre il primo passo nella valutazione cardiaca, anche quando non c’è un preciso sospetto patologico.

Essa comprende innanzitutto l’anamnesi, cioè una raccolta di informazioni, da parte del medico, sulla storia clinica del paziente, su eventuali sintomi accusati, su malattie pregresse e/o familiarità e, ovviamente, sullo stile di vita, per individuare eventuali fattori di rischio.

Segue, poi, un esame fisico: il medico controlla la pressione e il respiro; misura la temperatura; valuta la frequenza e la qualità del battito cardiaco; esamina lo stato dei vasi sanguigni più superficiali, controllando anche la presenza di eventuali rigonfiamenti nelle gambe o sull’addome, possibile spia di accumulo di liquidi e, quindi, di un cattivo funzionamento della pompa cardiaca.

Terminata questa fase, se lo ritiene opportuno, lo specialista può prescrivere una serie di accertamenti diagnostici più approfonditi.

Quali esami fare per il cuore

Ecco i principali esami che vengono impiegati per monitorare la salute del cuore e dei vasi sanguigni e porre quindi diagnosi cardiovascolari.

Elettrocardiogramma (ECG)

È un esame non invasivo che registra l’attività elettrica del cuore mediante degli elettrodi posti sul corpo del paziente e collegati da fili elettrici all’elettrocardiografo.

Può essere svolto a riposo o sotto sforzo: in questo secondo caso il paziente è in movimento su un tapis roulant o su una cyclette.

L’elettrocardiogramma a riposo è utile per individuare anomalie della conduzione dell’impulso elettrico, definite aritmie, un ispessimento delle pareti cardiache o danni cardiaci pregressi. L’elettrocardiogramma sotto sforzo, invece, è in grado di rilevare eventuali segni di ischemia miocardica.

Ecocardiogramma

Noto anche come ecocardiografia, è sostanzialmente un’ecografia del cuore, ovvero un esame non invasivo che, mediante l’utilizzo di una sonda che emette ultrasuoni, permette di visualizzare e osservare dimensioni, forma e movimento del cuore.

Consente quindi di valutare morfologia e funzionalità del cuore, lo spessore e la contrattilità delle pareti, la grandezza di atri e ventricoli, struttura e funzionalità delle valvole cardiache, aiutando per esempio a individuare cardiopatie e patologie valvolari, anche congenite.

Può essere eseguito in modalità transtoracica, cioè appoggiando la sonda sul torace, o transesofagea, cioè introducendo la sonda nell’esofago.

Sfruttando l’effetto doppler può anche esaminare il flusso sanguigno cardiaco (ecocolordoppler cardiaco).

Può essere effettuato a riposo o sotto stress farmacologico, cioè durante la somministrazione endovenosa di farmaci che portano cuore e sistema circolatorio a comportarsi come durante uno sforzo fisico.

Ecocolordoppler arterioso e venoso

Sono esami ecografici, non invasivi, che, sfruttando l’effetto doppler, permettono di valutare morfologia e funzionalità dei principali vasi sanguigni arteriosi e venosi, studiando anche il flusso di sangue al loro interno.

Permettono di diagnosticare e monitorare le principali malattie vascolari (aneurismi, stenosi e occlusioni arteriose o venose, trombosi e insufficienze venose) e di individuare la presenza di placche aterosclerotiche.

Holter ECG e Holter pressorio

L’holter è un dispositivo portatile che consente di registrare parametri vitali per un tempo prolungato e che può essere utilizzato anche per oltre 24 ore.

L’holter ECG è collegato a elettrodi che, posizionati sulla pelle, rilevano l’attività elettrica del cuore. Durante il tempo dell’esame, il paziente deve eseguire le attività quotidiane abituali, facendo solo attenzione a non far staccare le piastrine che mantengono gli elettrodi nella loro posizione. Eventuali problemi si possono segnalare tramite un pulsante dell’holter che registrerà il dato.

Grazie all’holter ECG si possono analizzare le aritmie, ossia mutamenti nel ritmo cardiaco, e pertanto viene consigliato a quei pazienti che presentano sintomi come vertigini, cardiopalmo o perdite di coscienza.

L’holter pressorio è invece collegato a uno sfigmomanometro e rileva a intervalli regolari la pressione arteriosa. Durante il tempo dell’esame si è invitati a svolgere la propria routine abituale, avendo cura di annotare gli orari di pasti, eventuali terapie, riposo notturno e risveglio, situazioni emotive particolari. Tale esame è estremamente utile per monitorare la pressione durante 24 ore, anche durante il sonno, per diagnosticare in modo preciso l’ipertensione arteriosa e per definire l’efficacia di una eventuale terapia anti-ipertensiva.

TAC coronarica

Si tratta di un esame che, attraverso radiazioni, permette di ottenere immagini tridimensionali di sezioni anatomiche. Quella coronarica, nello specifico, consente di valutare con precisione lo stato dell’aorta, delle coronarie e delle grosse arterie, rilevando anche eventuali segni di aterosclerosi e diagnosticando un’eventuale malattia coronarica.

La TAC coronarica si effettua sdraiati su un letto che si muove orizzontalmente in una struttura tubolare che emette raggi X e ruota attorno al paziente. Viene somministrato per via endovenosa un mezzo di contrasto per permettere la visualizzazione dei vasi.

In alcuni casi può essere necessario somministrare preventivamente un farmaco per ridurre la frequenza cardiaca, migliorando così la qualità dell’immagine.  

Risonanza magnetica cardiaca

Questo esame consente di valutare con estrema precisione morfologia e funzionalità del muscolo cardiaco, sia a riposo sia dopo stress indotto farmacologicamente, senza sfruttare radiazioni, ma grazie all’applicazione di un campo magnetico.

È un esame di secondo livello per la valutazione di malattie a carico del cuore e delle valvole cardiache: vi si ricorre quando l’ecografia non riesce a fornire le informazioni necessarie (per esempio in caso di forti fumatori o di pazienti con protesi mammaria), o se è necessaria una maggiore definizione della struttura del miocardio.

Richiede la somministrazione per endovena di un mezzo di contrasto, per migliorare la visualizzazione dell’organo. Può essere svolta anche con la somministrazione di un farmaco che porta cuore e sistema circolatorio a comportarsi come durante uno sforzo fisico (risonanza da stress).

Scintigrafia miocardica di perfusione

È un esame diagnostico non invasivo che consente di raccogliere informazioni sul funzionamento del cuore previa somministrazione di un radiofarmaco che si fissa a livello del muscolo cardiaco permettendo a una specifica apparecchiatura di acquisire immagini ed eventuali anomalie. Viene eseguito sotto sforzo e a riposo.

Permette in particolare di valutare la vitalità del miocardio e di rilevare eventuali deficit di perfusione, cioè di afflusso di sangue al cuore. È indicato, in particolare, in caso di sospetta cardiopatia ischemica, oppure nei pazienti con malattia coronarica già nota, per valutare l’entità e la distribuzione delle zone del cuore che ricevono meno sangue e il comportamento del cuore sotto sforzo.

Coronarografia

È un’angiografia delle coronarie, ovvero un esame radiologico che consente di visualizzare immagini delle coronarie, i vasi arteriosi che avvolgono a corona il cuore e che portano il sangue al muscolo cardiaco.

Si tratta di un esame invasivo che viene eseguito in regime di ricovero: richiede l’introduzione di un catetere in un’arteria (in genere a livello dell’inguine o del polso) risalendo poi fino all’imbocco delle coronarie, dove rilascia un mezzo di contrasto che ne consente la visualizzazione.

L’esame consente di stabilire se le coronarie sono libere o se ci sono restringimenti e dove; è indicato quando, per esempio, sono riferiti sintomi di angina pectoris o di insufficienza cardiaca con evidenza di ischemia inducibile agli esami non invasivi precedenti, o quando si intende programmare un intervento cardiochirurgico.

L’infarto miocardico

È la più comune patologia cardiovascolare e, ancora oggi, è una malattia mortale se non viene trattata tempestivamente e adeguatamente. Può essere curato solo in ospedale quindi, al primo sospetto, è opportuno chiamare il pronto intervento: più si tarda, maggiore è il rischio di complicanze fatali, tra cui aritmie gravi come la fibrillazione ventricolare. Ecco tutto quello che bisogna sapere al riguardo.

Che cos’è l’infarto del miocardio

L’infarto miocardico acuto, popolarmente noto come “attacco di cuore”, consiste nella necrosi (morte) delle cellule di parte del tessuto muscolare cardiaco, per via di un prolungato mancato o insufficiente afflusso di sangue e ossigeno allo stesso. L’insufficiente apporto sanguigno, a sua volta, deriva dall’ostruzione, parziale o totale, di una o più arterie coronarie, i vasi che avvolgono a corona il cuore e che sono deputati alla sua irrorazione e ossigenazione.

Le cause

Nella maggior parte dei casi, alla base dell’infarto miocardico c’è una malattia coronarica, ossia un restringimento del lume delle coronarie conseguente ad aterosclerosi, condizione degenerativa in cui sulle pareti delle arterie si accumulano grassi, colesterolo e altre sostanze, fino a formare placche aterosclerotiche (o ateromi). I fattori che possono favorirne lo sviluppo sono molteplici, tra cui ricordiamo: fumo, ipercolesterolemia, ipertensione, diabete.

L’infarto miocardico, in particolare, si verifica quando una di queste placche si rompe improvvisamente portando alla formazione, su di essa, di un coagulo (trombo) che, a seconda delle dimensioni, può bloccare completamente o parzialmente il flusso sanguigno attraverso l’arteria.

Più raramente, un attacco di cuore può derivare da:

  • malformazione coronarica, con conseguente restringimento del lume e formazione di un trombo;
  • dissezione coronarica, cioè lo scollamento tra i foglietti della parete coronarica che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione meccanica);
  • embolia coronarica, cioè un’occlusione causata da un embolo, che è una massa mobile (a differenza del trombo) e insolubile (come un coagulo di sangue, una bolla d’aria o un grumo di grasso) che raggiunge le coronarie da altre parti dell’organismo;
  • spasmo coronarico, cioè una contrazione improvvisa e temporanea dei muscoli della parete dell’arteria, che può verificarsi, per esempio, in seguito all’assunzione di alcune droghe.

Quali sono i sintomi dell’infarto del miocardio?

L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico rilevante o quando lo sforzo è già terminato.

Non tutti riferiscono gli stessi sintomi o li avvertono alla stessa intensità. Ci sono, come vedremo, casi asintomatici e anche situazioni in cui il primo segnale di infarto è un arresto cardiaco improvviso.

Nella maggior parte dei casi, comunque, compare tipicamente un dolore toracico di tipo oppressivo, cioè una sorta di macigno al petto, precordiale (prossimo alla sede intratoracica del cuore) o retrosternale, che dura più di 10 minuti.

Tale sensazione dolorosa si può irradiare al collo, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), tra le scapole, alle braccia (più spesso il sinistro) e all’addome.

Spesso si associano anche: sudorazione fredda profusa, nausea e vomito, senso di malessere profondo, bruciore di stomaco, stanchezza.

L’intensità dei sintomi può variare notevolmente. Alcuni pazienti riferiscono una sensazione di morte imminente, che porta a cercare il soccorso medico. Possono essere riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto nei diabetici), svenimento con perdita di coscienza.

Nella maggior parte dei casi la comparsa dei sintomi dell’infarto è brusca e improvvisa, ma possono anche esservi avvisaglie nel corso delle ore, dei giorni o delle settimane precedenti. È il caso dell’angina pectoris, una condizione di ischemia del cuore, cioè una diminuzione del flusso sanguigno che non arriva ad essere così prolungata da provocare necrosi, che si traduce in un dolore al petto che compare per brevi intervalli di tempo per poi scomparire e ripresentarsi successivamente. Ci sono pazienti che lamentano angina pectoris da ore o giorni a mesi o, a volte, addirittura anni prima di un vero e proprio infarto.

Si distinguono:

  • angina pectoris stabile, in genere scatenata da uno sforzo, quando alla maggiore richiesta di sangue del cuore (data dallo sforzo) le coronarie malate non riescono a sopperire adeguatamente; scompare col riposo;
  • angina pectoris instabile: il dolore al petto, pur temporaneo, compare anche a riposo o per sforzi lievi, magari in seguito a un’ostruzione temporanea o parziale della coronaria (in caso di ostruzione completa il dolore è protratto, non si modifica cambiando posizione o assumendo antidolorifici).

In presenza di sintomi che facciano pensare all’infarto, ma anche di fronte a possibili avvisaglie ed episodi di angina pectoris, che potrebbero comunque progredire rapidamente verso la condizione più grave, è opportuno rivolgersi tempestivamente al pronto soccorso.

Un intervento tardivo, infatti, aumenta il rischio di complicanze acute che possono avere esiti fatali, come:

  • shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi;
  • edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo;
  • aritmie gravi e eventuale arresto cardiaco;
  • ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale per la circolazione del sangue.

I sintomi dell’infarto nelle donne

Come anticipato, la sintomatologia dell’infarto può essere piuttosto variabile. Nelle donne, in particolare, può assumere caratteristiche più sfumate e ambigue: il classico dolore toracico retrosternale è meno frequente, e  più spesso si sperimenta solo un fastidio al petto o localizzato alle braccia, alla schiena, alla spalla o alla mandibola, e una prevalente sensazione di malessere, magari accompagnata da una transitoria mancanza di respiro, sudori freddi, nausea, a volte associata a vomito, stanchezza.

Il rischio, se si ignorano queste differenze, è che i sintomi possano essere sottovalutati o riconosciuti tardivamente, dalla donna stessa ma anche dagli operatori sanitari, aumentando la possibilità di esiti fatali.

Gli infarti silenti

Circa il 20% degli infarti è silente, cioè privo di sintomi evidenti. In genere sono scoperti casualmente, con un elettrocardiogramma, fatto magari per altri motivi, che evidenzia danni del muscolo cardiaco.

Attacchi di cuore senza sintomi apparenti possono verificarsi con  maggiore probabilità:

  • in soggetti con una soglia del dolore molto elevata;
  • in soggetti anziani (soprattutto over 75);
  • in presenza di una compensazione da parte di bypass fisiologici che permettono di garantire un flusso adeguato al cuore anche in presenza di un infarto;
  • in presenza di condizioni mediche (come diabete e malattie renali croniche) che impediscono ai nervi di trasmettere correttamente l’impulso doloroso;
  • negli uomini più che nelle donne;
  • in presenza di altre patologie con cui possa essere confusa l’ischemia cardiaca.

Nella maggior parte dei casi, un infarto silente, una volta diagnosticato, non richiede un trattamento urgente: vengono svolti esami (come ecocardiogramma, scintigrafia o risonanza e, eventualmente, una coronarografia) per confermare la diagnosi e stabilire se procedere con una terapia esclusivamente farmacologica o anche con una rivascolarizzazione miocardica con angioplastica o bypass. 

La diagnosi di infarto miocardico

Nel sospetto di un infarto miocardico è fondamentale chiamare immediatamente il pronto intervento (118 o 112) specificando la sintomatologia.

L’ipotesi di infarto si basa sui sintomi riferiti dal paziente e può essere confermata o esclusa con un elettrocardiogramma (il miocardio danneggiato porta a un’alterazione della conduzione degli impulsi elettrici).

Si effettuano anche esami del sangue per accertare o meno la presenza di enzimi cardiaci, sostanze rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco che sono andate incontro a necrosi e restano in circolo anche fino a due settimane dopo l’infarto.

Per verificare la diagnosi e valutare i danni causati dall’infarto si può ricorrere anche a un ecocolordoppler cardiaco.

Una coronarografia urgente permette di identificare la sede dell’ostruzione coronarica per poi procedere al trattamento.

Dopo un infarto, infine, per valutare indirettamente il grado di efficienza della circolazione coronarica e l’eventuale comparsa di ischemia, possono essere effettuati alcuni esami (elettrocardiogramma, ecocardiogramma, scintigrafia miocardica, risonanza magnetica) sotto sforzo o stress farmacologico.

Il trattamento

Una volta individuata la sede dell’ostruzione con la coronarografia, si procede contestualmente e immediatamente a riaprire l’arteria con un intervento di angioplastica.

In pratica, utilizzando lo stesso punto di accesso dell’esame, tramite un’arteria periferica a livello del polso o dell’inguine, si introduce un catetere che, all’apice, porta un palloncino gonfiabile che viene fatto risalire fino al punto di massimo restringimento della coronaria, attraverso il coagulo. Lì il palloncino viene gonfiato, in modo da schiacciare le componenti del coagulo sulle pareti e riaprire così l’arteria, permettendo la ripresa del flusso sanguigno.

Alla dilatazione del palloncino segue l’impianto di uno stent coronarico, una piccola rete metallica cilindrica, che mantiene aperta l’arteria malata.

In casi selezionati, se l’ostruzione non è raggiungibile con il catetere, si può procedere alla riapertura arteriosa somministrando per via endovenosa dei farmaci trombolitici, cioè in grado di dissolvere il trombo. Tali farmaci, però, non possono essere utilizzati in tutti i pazienti, in quanto associati a un alto rischio emorragico.

Se viene rilevata una malattia coronarica grave o estesa, non trattabile con angioplastica e stent, si può ricorrere all’intervento di bypass coronarico: si crea, chirurgicamente, un nuovo canale di comunicazione fra l’aorta e la coronaria ristretta o ostruita a valle della lesione (che viene quindi aggirata), mediante l’utilizzo di altre arterie (arteria mammaria interna) o vene (safena rimossa dagli arti inferiori). Normalmente, però, questo tipo di approccio non viene utilizzato in emergenza a meno che non vi sia assoluta necessità.

Dopo il trattamento

Una volta riaperta la coronaria ostruita, viene impostata una terapia farmacologica a lungo termine (generalmente per il resto della vita), fondamentale per la prevenzione secondaria, cioè per proteggere l’eventuale stent inserito e agire sui fattori di rischio (in particolare ipertensione e ipercolesterolemia), allo scopo di ridurre la probabilità di un secondo infarto e l’evoluzione verso un malfunzionamento del cuore e della circolazione (scompenso cardiaco).

Sono sempre prescritti farmaci antiaggreganti (la cardioaspirina, spesso associata a un altro antiaggregante per un tempo variabile da un mese a un anno), cui spesso sono associati anche farmaci contro l’ipertensione (come betabloccanti e ace-inibitori) e contro l’ipercolesterolemia (statine). La terapia viene valutata in modo personalizzato, sulla base delle caratteristiche individuali e di eventuali controindicazioni. Per lo stesso motivo, quindi, anche in considerazione di eventuali altre patologie, possono essere prescritti in aggiunta anche altri farmaci.

Oltre alla terapia farmacologica, resta fondamentale modificare il proprio stile di vita, seguendo le buone abitudini per la salute cardiovascolare che abbiamo già ricordato in precedenza, e sottoporsi a controlli periodici secondo il calendario stabilito dai medici.

Subito dopo un infarto miocardico può essere indicato anche un periodo di riabilitazione cardiologica, svolta in regime di degenza o ambulatorialmente, a seconda della gravità dell’infarto stesso, della capacità di recupero del paziente e di eventuali altri patologie presenti. La riabilitazione serve per consentire una graduale ripresa della capacità di esercizio individuale, per assestare la terapia il più possibile sulla base della vita extra-ospedaliera del paziente e, infine, per cominciare a modificare correttamente lo stile di vita.

L’arresto cardiaco è diverso dall’infarto

Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Ora, è vero, sono entrambi seri eventi cardiovascolari ed entrambi rappresentano un’emergenza medica che richiede un intervento tempestivo, altrimenti gli esiti possono essere fatali.  È anche vero che può capitare che un infarto causi un arresto cardiaco, ma non è sempre così e ci sono anche altre cause che possono fermare il cuore.

Dopo aver affrontato nel dettaglio l’infarto, per capire le differenze vediamo brevemente che cos’è un arresto cardiaco.

Come si intuisce dal nome, si parla di arresto cardiaco quando il cuore si ferma: la sua attività elettrica cessa completamente, smette di battere e, di conseguenza, anche di pompare il sangue nel corpo.

Questo si verifica in seguito a un’aritmia tale da mandare in tilt il sistema elettrico del cuore che, a sua volta, può essere causata da diverse condizioni, non solo cardiache, come:

  • aritmie;
  • infarto, soprattutto quando il danno del miocardio è molto esteso;
  • scompenso cardiaco in fase terminale;
  • miocardite;
  • tamponamento cardiaco (per esempio in seguito a incidenti con coinvolgimento della zona);
  • malattie genetiche del cuore (come la Sindrome di Brugada o le canalopatie)
  • embolia polmonare
  • insufficienza respiratoria
  • importanti squilibri elettrolitici (in particolare di potassio e magnesio)

L’arresto cardiaco comporta una immediata perdita di coscienza e anche la cessazione di altre funzioni vitali, inclusa la respirazione. Si può anche perdere il controllo degli sfinteri, con possibile perdita di feci e urine. Prima dell’arresto cardiaco vero e proprio possono comparire sintomi correlati alla causa sottostante, per esempio dolore toracico se la causa è un infarto, palpitazioni se è una tachi-aritmia, difficoltà respiratorie in caso di insufficienza respiratoria.

Qualsiasi sia la causa, l’arresto cardiaco richiede un immediato intervento di rianimazione, con l’intento di far ripartire il cuore e supportare gli organi vitali, allo scopo non solo di evitare esiti fatali ma anche l’instaurarsi di danni gravi e permanenti a cervello e altri organi: la rianimazione cardiopolmonare prevede l’applicazione di un protocollo con una sequenza di compressioni al torace e respirazione bocca a bocca; se possibile e indicato, si ricorre anche a defibrillazione per far cessare l’aritmia e far ripartire il cuore.

Per questo, se si assiste a un arresto cardiaco è fondamentale chiamare subito il 118 (o 112) e tentare le manovre di rianimazione, seguendo le indicazioni telefoniche del personale sanitario, nell’attesa dell’arrivo dei soccorsi che condurranno il paziente in ospedale.

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