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Ansia patologica e attacchi di panico: un disturbo comune

Sono 8,5 milioni, gli italiani che almeno una volta nella vita hanno sofferto di disturbi d’ansia, la patologia psichiatrica più comune nel nostro Paese.

Se, infatti, la paura fisiologica è una naturale risposta della nostra psiche a stimoli esterni che potrebbero comportare pericolo, quando diventa patologica, l’ansia si configura come un vero e proprio stile di vita, per cui il paziente sviluppa una costante tendenza alla preoccupazione, all’ipercontrollo e all’ipervigilanza, illudendosi così di stare tranquillo ma non facendo altro che rafforzare degli stati disfunzionali. 

Ne parliamo con la dottoressa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Che cos’è l’ansia patologica

Quando si parla di ansia generalizzata, fobie, preoccupazioni catastrofiche o attacchi di panico si intendono una serie di risposte non funzionali della psiche rispetto alla reale entità degli stimoli esterni con cui si entra in contatto e che, dunque, trasformano una condizione emotiva fisiologica (quella dell’ansia e della paura necessarie a fronteggiare un pericolo) in una situazione patologica che, se reiterata, rischia di cronicizzarsi. 

Normalmente, dunque, gli stimoli ansiogeni che riceviamo nella nostra quotidianità (per esempio parlare in pubblico, o sostenere un esame particolarmente difficile), innescano nella nostra psiche una risposta emotiva fisiologica, che, se si sviluppa in maniera adeguata, ci aiuta ad affrontare quella determinata difficoltà. Se, invece, la risposta ansiosa è abnorme rispetto allo stimolo, diventa disfunzionale e riduce le nostre possibilità di riuscita. In caso di ansia patologica, infatti, diventa difficile riuscire a gestire manifestazioni somatiche e manifestazioni psichiche della patologia, che finiscono con il prendere il sopravvento.

Ansia: quali sono i sintomi?

Le principali manifestazioni somatiche dell’ansia sono: vampate di calore o brividi, pollachiuria, disfagia o “nodo alla gola”, tremori, contrazioni muscolari, tensioni o dolenzia muscolare, facile affaticabilità, irrequietezza, dispnea e sensazione di soffocamento, palpitazioni, sudorazione o mani fredde e bagnate, bocca asciutta, vertigini o sensazione di sbandamento, nausea, diarrea o altri disturbi addominali, difficoltà di addormentamento e a mantenere un sonno profondo e soddisfacente. 

Tra le manifestazioni psichiche dell’ansia, invece, annoveriamo il sentirsi nervoso o sul filo del rasoio, risposte esagerate di allarme, difficoltà di concentrazione, sensazione di testa vuota, incapacità a rilassarsi, irritabilità, atteggiamento apprensivo, paura di morire, paura di perdere il controllo, paura di riuscire ad affrontare le situazioni. 

È comune che coloro che sperimentano l’ansia nella sua forma patologica abbiano la tendenza alla preoccupazione, all’iper responsabilizzazione, alla rimuginazione e all’iper vigilanza. In questo modo l’ansia rischia di diventare un vero e proprio stile di vita, sia mentale, per via di una continua amplificazione peggiorativa del reale e di una costante attesa del danno a cui si associa la sensazione di impotenza, sia pratico, con evitamenti di determinate situazioni, perdita di autonomia e necessità di rassicurazione e ansia anticipatoria. 

Che cosa sono gli attacchi di panico

Una delle manifestazioni più comuni dell’ansia patologica sono gli attacchi di panico, che hanno un’incidenza nella popolazione generale tra l’1,55 e il 3,5% quando sono un fenomeno cardine del Disturbo di Panico e del 14% se ci si riferisce ad attacchi di panico saltuari, sintomi che potremmo definire parafisiologici, non elementi di una malattia in questo caso. 

Si tratta di un’esternazione di paura intensa, che viene accompagnata da sintomi sia somatici sia cognitivi e ha un inizio improvviso e un apice, a cui segue poi un lento ritorno alla stabilità. 

Il DSM-V identifica l’attacco di panico come un periodo di intensa paura o disagio accompagnato da almeno quattro sintomi somatici o cognitivi su 13 (gli attacchi che non presentano almeno quattro tra questi sintomi sono definiti paucisintomatici), che raggiunge velocemente il suo apice (in circa 10 minuti, ma anche meno) e si associa spesso a senso di pericolo o catastrofe imminente e necessità di allontanarsi. 

Attacchi di panico: quali sono i sintomi?

I 13 sintomi somatici o cognitivi che possono occorrere in caso di attacco di panico sono:

  • palpitazione, cardiopalmo o tachicardia;
  • sudorazione;
  • tremori fini o a grandi scosse;
  • dispnea o sensazione di soffocamento;
  • sensazione di asfissia;
  • dolore o fastidio al petto;
  • nausea o disturbi addominali;
  • sensazione di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento;
  • derealizzazione (senso di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi);
  • paura di perdere il controllo o di impazzire;
  • paura di morire;
  • parestesie (sensazione di torpore o di formicolio);
  • brividi o vampate di calore. 

Inizialmente gli attacchi di panico si presentano all’improvviso, senza essere legati a situazioni particolari, mentre successivamente cominciano a manifestarsi in relazione a condizioni e momenti specifici.

Per questo motivo gli specialisti distinguono due diverse tipologie di attacchi di panico: quelli inaspettati e quelli situazionali. 

Trattandosi di un’esperienza  inattesa, intensa, molto spiacevole, spesso accompagnata dalla paura di perdere il controllo (fisico o psichico) molti pazienti (ma non tutti) iniziano a sviluppare il timore di poter rivivere tale esperienza (ansia anticipatoria) e tendono così a evitare quelle situazioni in cui sono stati male temendo che gli attacchi possano ripresentarsi con maggior probabilità. Tale condizione può determinare altre condizioni patologiche come la preoccupazione eccessiva per qualunque sintomo fisico considerato anomalo o la paura di poter star male davanti ad altre persone. Questo circolo vizioso viene definito dagli esperti la “marcia del panico” ed è la principale causa dell’instaurarsi del disturbo da attacchi di panico. 

Attacchi di panico e agorafobia 

Spesso il disturbo di panico si associa all’agorafobia, ossia all’ansia di trovarsi in situazioni e luoghi da cui è difficile uscire o allontanarsi. L’agorafobia infatti si sviluppa soprattutto in situazioni in cui il paziente è da solo o in mezzo a una folla di persone, o in luoghi da cui è difficile, se non impossibile, allontanarsi come per esempio i ponti, i treni, gli autobus o le automobili. Sono contesti in cui chi soffre di agorafobia potrebbe sviluppare un attacco di panico. 

Chi soffre di agorafobia, dunque, cercherà ad evitare quelle situazioni o quei luoghi in cui sa che si potrebbe manifestare un attacco di panico, o, se proprio non è possibile farne a meno, sopporterà la propria permanenza in quel dato luogo con molta fatica e preferirà avere al suo fianco qualcuno di fidato, in grado di dare una mano in caso si verifichi l’attacco di panico. 

La diagnosi degli attacchi di panico 

Per formulare una diagnosi corretta, lo specialista valuterà se gli attacchi di panico che interessano il paziente soddisfano o meno determinati criteri

  • Il disturbo di panico viene diagnosticato quando il paziente riporta attacchi di panico inaspettati e ricorrenti e dopo almeno uno di questi si sono verificati per un mese o più uno o più fra sintomi come: preoccupazione di essere soggetto a ulteriori attacchi di panico; preoccupazione per le conseguenze dell’attacco di panico (dalla perdita di controllo, ad avere conseguenze sul piano fisico); significativa alterazione del comportamento correlato agli attacchi.
  • Se al disturbo di panico si associa o meno agorafobia.
  • Se gli attacchi di panico non sono causati dall’utilizzo di sostanze stupefacenti, dall’abuso di farmaci o da condizioni mediche generali (come l’ipertiroidismo).
  • Se gli attacchi di panico non sono correlati ad altri disturbi mentali quali: fobia sociale, fobia specifica, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da stress post-traumatico, o disturbo d’ansia da separazione. 

Il trattamento del disturbo di panico 

La gestione clinica del disturbo di panico è un aspetto importante e delicato, poiché il rischio per i pazienti che ne sono affetti è, a lungo termine, la cronicizzazione del disturbo.

I risultati terapeutici a breve-medio termine, infatti, prevedono un indice di remissione di circa il 90%, tuttavia in fase di follow-up a due anni dall’inizio della terapia risultano aver mantenuto la remissione (o presentano un miglioramento della sintomatologia) solo il 45% dei pazienti trattati. 

In fase diagnosi è dunque rilevante effettuare una valutazione completa e accurata del disturbo e quale sia, di conseguenza, il trattamento più adeguato, in modo tale da evidenziare i passaggi della terapia che possono risultare più critici e andare a determinare un esito positivo o negativo della terapia. 

Il trattamento terapeutico per il disturbo di panico prevede diverse fasi: la presa in carico iniziale del paziente, la fase acuta del trattamento, la fase di mantenimento del trattamento (che può andare dai 6 ai 12 mesi circa), l’interruzione della terapia farmacologica, e il follow-up a lungo termine. 

In linea generale la terapia di elezione per il disturbo di panico prevede la combinazione di un trattamento farmacologico e di una terapia psicologico-riabilitativa di tipo cognitivo-comportamentale al fine da consentire al paziente di raggiungere una serie di obiettivi di cura, quali: la risoluzione degli attacchi di panico spontanei, il recupero funzionale (in particolar modo per quanto riguarda le limitazioni imposte dall’agorafobia), la capacità di tornare a gestire le proprie sensazioni fisiche e corporee senza che queste siano associate a timori.

Una diagnosi e una valutazione personalizzata sono sempre fondamentali per formulare una diagnosi e un intervento terapeutico il più possibile mirato sul paziente, ma in linea generale è possibile affermare che il trattamento farmacologico è importante per “bloccare” gli attacchi di panico improvvisi, in particolare per ridurre i sintomi somatici, mentre la terapia cognitivo comportamentale mira a ridurre gli evitamenti e orientare le persone a un modo di pensare funzionale alle proprie sensazioni fisiche e alle proprie paure. 

Per quanto concerne il trattamento farmacologico, i farmaci “curativi” più utilizzati sono gli antidepressivi serotoninergici (SSRI), il cui funzionamento va sempre discusso in modo approfondito soprattutto per smontare i diversi pregiudizi che molto spesso le persone ancora hanno verso i cosiddetti psicofarmaci.

È importante sapere che con gli antidepressivi serotoninergici (SSRI): 

  • esiste una latenza di risposta variabile tra 3-6 settimane;
  • può esserci un peggioramento del quadro clinico nelle prime 2 settimane;
  • possono comportare effetti collaterali;
  • sono inefficaci nel 20-30% dei casi;
  • la loro assunzione richiede una fase di mantenimento di almeno 6-12 mesi dal momento in cui si evidenzia una risposta clinica.

Infine è opportuno sottolineare l’importanza, ai fini della terapia, di un paziente consapevole del proprio ruolo attivo nella gestione del disagio psichico e della sintomatologia che il disturbo comporta.

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