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Il tumore nei giovani: compie un anno il progetto AYA di Humanitas

Compie un anno il progetto AYA (Adolescents & Young Adults Group) di Humanitas: un percorso clinico e psicosociale dedicato ai pazienti oncologici tra i 16 e i 39 anni. Presso il Centro Congressi di Humanitas, lo scorso 18 giugno, si è festeggiata questa importante ricorrenza; un’occasione preziosa anche per fare il punto sul progetto, sulle novità e per ricordare la specificità dei bisogni di questa fascia di età.

Ad aprire la serata, le parole di Luciano Ravera, Amministratore Delegato di Humanitas: “Questo progetto è uno dei fiori all’occhiello del nostro Cancer Center: lo è da un punto di vista clinico, da un punto di vista scientifico e soprattutto da un punto di vista umano. Ammalarsi di cancro in questa fascia di età è una sfida delicata e difficile: in un momento in cui ci si costruisce una carriera di studi, una famiglia o una professione, il cancro può generare ansia, incertezza e difficoltà. E proprio per questo il lavoro dei colleghi che si sono dedicati ad AYA è un lavoro estremamente meritorio”.

Come ha ricordato il professor Armando Santoro, Direttore di Humanitas Cancer Center, questi pazienti hanno necessità cliniche specifiche, ma anche bisogni psicologici e sociali unici. Complessivamente la prognosi è buona, anche se la fascia d’età tra i 16 e 39 anni rappresenta il gruppo in cui si sono registrati meno miglioramenti negli anni, rispetto al mondo dei bambini e degli adulti.

La sfida e gli obiettivi di AYA

La dottoressa Alexia Bertuzzi, Capo Sezione Sarcomi e patologie tumorali del giovane adulto e referente del progetto AYA, ha sottolineato: “In merito all’oncoematologia nell’adolescente e nel giovane adulto abbiamo osservato, in linea con quanto visto nel resto del mondo, che ci troviamo di fronte a un grande gap medico legato a una mancanza di miglioramento nella sopravvivenza (sebbene il livello di sopravvivenza sia comunque alto), anche se – come precisato dal prof. Santoro – negli ultimi anni in alcuni tumori ci sono stati netti miglioramenti. Il gap è legato anche all’epidemiologia: abbiamo infatti a che fare con malattie rare, e anche quando si tratta di tumori comuni (pensiamo al tumore del colon-retto), il loro comportamento è differente, facendoli rientrare tra i tumori rari.

Il secondo gap è psicosociale. I pazienti AYA sono nella terra di nessuno (No Man’s land), non di competenza del pediatra come neanche dell’oncologo dell’adulto; i giovani si sentono invincibili e non pensano di potersi ammalare, trovarsi di fronte a una diagnosi oncologica distrugge diversi aspetti dell’immagine di sé, dei sentimenti, di una vita che si sta costruendo, con profonde ricadute sulla sicurezza in se stessi.

La sfida di AYA è quella della creazione di un nuovo modello di cura, in cui il medico deve interfacciarsi non solo con il paziente ma anche con il mondo che lo circonda quotidianamente (partner, genitori, scuola, università, amici). Grande attenzione è dedicata agli effetti collaterali a breve come anche a lungo termine. Una volta curato il tumore, infatti, cerchiamo di ridurre le conseguenze dei trattamenti: secondi tumori, problemi metabolici, cardiopolmonari, di fertilità e problemi comportamentali.

AYA è un esempio forte di medicina personalizzata, lavoro di gruppo e di collaborazione con il paziente, protagonista in prima persona del proprio percorso di cura”.

La dimensione psicologica e l’importanza della condivisione

La dottoressa Emanuela Mencaglia, psicologa di Humanitas, ha raccontato il lavoro fatto negli incontri con il gruppo, a cui hanno preso parte molti ragazzi. “Si tratta di un momento importante per condividere con le psicologhe e tra pazienti la situazione che si sa vivendo. Gli incontri sono incentrati sul qui e ora, sull’organizzazione della quotidianità con una diagnosi di malattia, ma anche una volta conclusa la terapia e in vista di eventuali ricadute”.

La dottoressa ha anche spiegato come il gruppo abbia dovuto affrontare la perdita di alcuni componenti del gruppo per la malattia. “Tra loro si instaura un legame profondo di riconoscimento perché chi si ammala si sente isolato, diverso dai coetanei e da quello che viveva prima. La perdita di un compagno è la proiezione in avanti di un’eventualità ed è molto difficile da guardare”, ha osservato la specialista.

Particolarmente emozionante è stata la testimonianza di alcuni dei ragazzi del gruppo AYA, che hanno raccontato di quanto il gruppo sia stato fondamentale per loro perché condividere il proprio vissuto con altri coetanei che capiscono davvero cosa stai vivendo, ti permette di affrontare la malattia e le sue sfide con maggior energia, guardando avanti senza sentirsi soli. Si è creata una rete di contatti spontanea, in cui nessuna domanda è indiscreta e tutti sono liberi di condividere ciò che sentono, senza filtro. “In AYA possiamo chiamare le cose con il loro nome, parlare di cancro, tumore, chemioterapia e radioterapia senza che venga la pelle d’oca e la voce si abbassi”, ha raccontato una delle pazienti.

Radioterapia sempre più mirata

La professoressa Marta Scorsetti, Responsabile di Radioterapia e Radiochirurgia, ha spiegato come la radioterapia stia vivendo un momento di evoluzione molto importante. Le terapie sono sempre più precise e mirate e capaci di risparmiare tessuti sani e le tossicità sia acute sia tardive sono notevolmente ridotte”.

La preservazione della fertilità

Presenti anche le dottoresse Annamaria Baggiani, Responsabile del Servizio di Infertilità femminile e PMA, e Cristina Specchia, specialista in Ginecologia e Medicina della riproduzione. Le specialiste hanno ricordato come in Humanitas presso il Fertility Center si offrano percorsi di fertilità e procreazione medicalmente assistita a uomini e donne, un tema molto importante nei giovani pazienti oncologici che hanno così la possibilità di provare ad avere un figlio in futuro.

Ai pazienti che si trovano a dover affrontare una terapia aggressiva per la fertilità viene proposta, negli uomini, la crioconservazione dello sperma, mentre nelle donne dopo una stimolazione ormonale, il prelievo e la crioconservazione degli ovociti o del tessuto ovarico.

I progetti legati ad AYA

La dottoressa Caterina Foppa, medico e ricercatrice del team del professor Antonino Spinelli, Responsabile della Chirurgia del colon e del retto, ha spiegato come l’incidenza del cancro del colon retto nei giovani adulti sia in aumento. Ci sono vari studi in merito in letteratura e un report dell’American Cancer Society rivela come le persone nate negli anni 90 abbiano due volte il rischio di cancro al colon e 4 volte il rischio di cancro al retto rispetto agli adulti nati negli anni 50.

Nel corso dell’anno è stata fatta una raccolta retrospettiva di dati all’interno di uno studio multicentrico. Ci si è concentrati sui pazienti con tumore del retto perché il retto è la sede più frequente di tumore ed è legato a problematiche chirurgiche e funzionali. Ne è emerso che nei giovani adulti il tempo che passa tra i primi sintomi e la diagnosi è più di un anno, questo perché i sintomi sono spesso sottovalutati, dal paziente e dai medici stessi.

In futuro verrà avviato uno studio prospettico nel tentativo di andare a cercare l’eziopatogenesi della malattia che sembra totalmente diversa nei giovani rispetto agli adulti, ma anche per osservare la qualità della vita, gli aspetti psicologici e l’impatto sociale legati al tumore del colon retto.

I i pazienti AYA vengono seguiti anche dai cardiologi e sottoposti a indagini diagnostiche per evidenziare eventuali segni di compromissione dell’apparato cardio vascolare. Alcune terapie contro il tumore infatti, sono efficaci e migliorano la qualità della vita ma presentano cardio-tossicità. Un’analisi della cardiotossicità subclinica verrà effettuata tramite ecocardiogramma con valutazione dello strain nei pazienti che hanno ricevuto antracicline e prospetticamente nei pazienti che lo riceveranno.

Uno sguardo al futuro

La dottoressa Bertuzzi ha infine anticipato i due prossimi obiettivi che si vorrebbero raggiungere: “Uno spazio per le chemioterapie dedicato ai giovani, perché i ragazzi possano ritrovarsi insieme durante l’infusione e l’introduzione di una figura di riferimento per i pazienti, verosimilmente un’infermiera dedicata che rappresenti un punto fisso per il paziente”.

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