
Gli inibitori delle aromatasi sono sotto esame da alcuni anni; il presupposto teorico della loro azione è il blocco della sintesi degli ormoni femminili, da cui dipende la maggior parte (circa i due terzi) dei tumori della mammella. Finora, però, mancavano studi conclusivi che dimostrassero la superiorità di questo approccio e, al tempo stesso, l’innocuità della terapia. La ricerca appena pubblicata sembra perciò rispondere ad alcuni degli interrogativi in campo. Ma non a tutti, come sottolinea il dottor Armando Santoro responsabile dell’Unità operativa di oncologia di Humanitas. “Si tratta senza dubbio di molecole molto importanti e destinate ad avere un ruolo ma, per il momento, la prudenza è d’obbligo. Mancano infatti dati che ci dicano che cosa succede dopo molti anni di blocco della produzione di ormoni, come ad esempio l’osteoporosi (visto che con il tamossifene si ha un significativo effetto antiosteoporosi), se aumenta o meno il rischio di una serie di tumori collegati all’equilibrio ormonale, se il sistema cardiocircolatorio è influenzato dalla cura e così via. La linea che prevale tra gli esperti è pertanto quella di un utilizzo accorto, in donne selezionate che siano comunque consapevoli dei molti punti di domanda esistenti e del fatto che è disponibile un’alternativa valida, il tamossifene”.
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