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Melanoma metastatico: uno studio Humanitas identifica un nuovo marcatore prognostico

Il melanoma metastatico è un tumore della pelle esteso ad altri organi. Negli ultimi decenni si è visto un aumento dei melanomi nella popolazione mondiale, si tratta infatti di tumori molto aggressivi, curabili se diagnosticati precocemente ma pericolosi quando non individuati in tempo. La Ricerca oggi, si concentra tra gli altri aspetti su nuove possibilità di trattamento per tutti quei pazienti che non rispondono adeguatamente alle cure. 

In questa direzione muove anche uno studio di Ricerca, finanziato da Fondazione AIRC, frutto della collaborazione di Ricercatori e Specialisti di Istituto Clinico Humanitas, Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e Università degli Studi del Piemonte Orientale.

Quali sono i presupposti dello studio? E quali le prospettive di cura per i pazienti interessati da melanoma metastatico? 
Ne parliamo con il professor Antonio Sica, Direttore del Laboratorio di Immunologia Molecolare di Humanitas. 

Tumori: cosa succede al sistema immunitario?

“Il sistema immunitario di un paziente affetto da neoplasia è spesso caratterizzato da uno stato di ‘immunosoppressione’, che previene un’efficace risposta antitumorale. In condizioni fisiologiche, infatti, il nostro midollo osseo produce le cellule immunitarie, un processo definito ematopoiesi, garantendo la funzionalità e l’integrità del nostro sistema immunitario. In condizioni di stress immunologici, quali infezioni e tumori, il nostro organismo altera tale produzione al fine di assicurarsi ad un aumento di difese immunitarie. Abbiamo però imparato che i tumori alterano tale capacità di adattamento a loro favore, riprogrammando l’ematopoiesi verso l’espansione di cellule mieloidi soppressorie (macrofagi in particolare), in grado di spegnere le difese antitumorali e di favorire una crescita incontrollata del tumore”, spiega il professor Sica. 

Eme-ossigenasi: un enzima che favorisce lo sviluppo delle cellule tumorali

“Lo studio di Ricerca che abbiamo avviato ha permesso l’identificazione di una popolazione di macrofagi, che normalmente forniscono la prima linea di difesa del nostro organismo, che esprime alti livelli di eme-ossigenasi, un enzima coinvolto nel metabolismo del ferro. 

Perché è importante? Perché questa popolazione macrofagica si infiltra nel tumore, rilasciando tramite l’attività dell’enzima  eme-ossigenasi ferro libero e monossido di carbonio. Tale evento comporta due conseguenze: la prima è lo sviluppo di vasi sanguigni, che aumentano l’apporto di ossigeno e nutrienti alle cellule tumorali, favorendone lo sviluppo; la seconda è l’effetto immunosoppressorio del monossido di carbonio che sopprime i linfociti-T, fondamentali cellule del sistema immunitario specializzate nell’uccisione delle cellule tumorali” approfondisce il professore.

“Grazie ad approcci genetici e inibitori specifici, abbiamo bloccato l’accumulo di questa popolazione e l’attività del suo enzima eme-ossigenasi, inibendo la formazione di metastasi polmonari in modelli preclinici di melanoma. Abbiamo inoltre dimostrato che la combinazione di inibitori di eme-ossigenasi aumenta notevolmente l’attività antitumorale dell’immunoterapia.

È un risultato importante, che indica la possibilità di migliorare l’efficacia dell’immunoterapia in pazienti trattati con inibitori dei ‘checkpoint immunologici’. L’importanza di tale scoperta e il suo possibile sviluppo clinico è direttamente legata all’osservazione che il tasso di mortalità dei pazienti oncologici dipende principalmente dalla formazione di metastasi”.

Un indicatore prognostico e di risposta alla terapia

“Lo studio ha previsto una prima fase di Ricerca in laboratorio, seguita da una analisi genomica approfondita su 472 pazienti con melanoma, tramite accesso alla banca dati The Cancer Genome Atlas Program. Successivamente, in collaborazione con listituto dei Tumori di Milano, abbiamo validato i risultati ottenuti su 92 pazienti interessati da melanoma metastatico. Tali analisi hanno chiaramente dimostrato che alti elevati livelli di eme-ossigenasi nel sangue periferico dei pazienti correlano con forme più aggressive della malattia, identificando l’eme-ossigenasi come marcatore periferico di prognosi. 

Stiamo ora valutando se l’eme-ossigenasi possa anche essere un indicatore di risposta alla terapia, valutando le risposte cliniche all’immunoterapia in pazienti caratterizzati da diversi valori di eme-ossigenasi. L’identificazione di marcatori di risposta alla terapia permetterà di indirizzare i pazienti verso terapie più mirate e personalizzate a partire dalla valutazione del loro stato immunologico”, conclude il professor Sica.

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