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La terapia anti-androgenica protegge da COVID-19? Uno studio Humanitas

Dall’inizio dell’epidemia COVID-19, Humanitas si è mostrata in prima linea nella lotta al virus e alla cura dei pazienti si è affiancato un continuo lavoro di Ricerca con moltissimi medici e ricercatori impegnati in numerosi studi

Ne è un esempio lo studio osservazionale sull’utilizzo della terapia anti-androgenica sui pazienti COVID-19 condotto dall’équipe di Urologia di Humanitas Rozzano, in collaborazione con il laboratorio di Genetica medica e Biologia dell’RNA di Humanitas University. Lo studio, intitolato Impact of chronic exposure to 5-alpha reductase inhibitors on the risk of hospitalization for COVID-19: a case-control study in male population from two COVID-19 regional centers of Lombardy (Italy), è stato pubblicato sul numero di  gennaio 2021 della rivista Minerva Urologica e Nefrologica e ha indagato l’ipotesi che i pazienti esposti a trattamento anti-androgenico siano maggiormente protetti da forme clinicamente gravi di malattia COVID-19. 

COVID-19 negli uomini e nelle donne

Nella suscettibilità e vulnerabilità a COVID-19 sussistono differenze di genere e gli uomini sono maggiormente a rischio di sviluppare una patologia più aggressiva, a prescindere dall’età, rispetto alle pazienti donne. 

La spiegazione potrebbe in parte risiedere nell’espressione del gene TMPRSS2 (Transmembrane Serine Protease 2), responsivo alla stimolazione degli androgeni, ormoni presenti sia negli uomini sia nelle donne ma caratterizzanti il sesso maschile dove la loro concentrazione è maggiore. I pazienti che sono in terapia con farmaci che riducono la stimolazione androgenica, dunque, potrebbero essere anche quelli più protetti da COVID-19.

Lo studio sulla terapia anti-androgenica

Lo studio osservazionale ha coinvolto 943 pazienti uomini su un totale di 1432 pazienti (uomini e donne) con diagnosi confermata di COVID-19 ricoverati presso l’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano e l’Istituto Humanitas Gavazzeni di Bergamo tra il 1 marzo 2020 e il 24 aprile 2020, nel corso della prima ondata dell’epidemia. 

I ricercatori hanno valutato se i pazienti uomini con ipertrofia prostatica benigna e in trattamento con inibitori della 5-Alfa reduttasi (5ARI) – usati per il trattamento dell’ipertrofia prostatica benigna – o con terapia di deprivazione androgenica (ADT), per il trattamento del tumore prostatico, avessero un diverso rischio di andare incontro a forme gravi (che hanno richiesto un ricovero ospedaliero) in corso di malattia COVID-19, rispetto ai pazienti non sottoposti alla medesima terapia. Sul totale dei pazienti uomini, quelli già in trattamento cronico con inibitori della 5ARI prima del ricovero sono stati 45 (4,77%), mentre quelli trattati con terapia ADT sono stati 8 (0,85%).

“Lo studio ha effettuato un confronto tra la prevalenza dell’utilizzo di inibitori della 5ARI in individui di sesso maschile ricoverati per COVID-19 rispetto all’atteso, basandosi sulla prevalenza dell’utilizzo di questi farmaci nella popolazione maschile della Regione Lombardia. È stato dunque riscontrato che i pazienti ricoverati per COVID-19 in trattamento con inibitori della 5ARI erano in numero significativamente inferiore rispetto all’atteso.

Lo studio ha confrontato i pazienti per classi d’età (45-54 anni, 55-64 anni, 65-74 anni, 75-84 anni, ≥85 anni), in quanto il trattamento è più frequente con l’aumentare dell’età in relazione all’incremento della percentuale di individui affetti da iperplasia prostatica”, spiega il professor Stefano Duga, docente di Biologia Molecolare in Humanitas University.

I risultati dello studio

“Dai dati analizzati durante lo studio, è emerso che l’esposizione alla terapia anti-androgenica potrebbe effettivamente giocare un ruolo protettivo nel sesso maschile. I pazienti in cura con questi farmaci laddove contraggano l’infezione e sviluppino COVID-19, corrono un minor rischio di essere ricoverati in una struttura ospedaliera. 

In un momento in cui tutte le indicazioni sanitarie (come l’utilizzo delle mascherine, il distanziamento sociale, la limitazione degli spostamenti e la campagna vaccinale appena iniziata) mirano a proteggere la comunità e di conseguenza a ridurre la pressione sugli ospedali, l’osservazione che scaturisce dall’analisi dei dati presi in considerazione da questo studio è meritoria poiché identifica una strada per ridurre le probabilità che determinati pazienti necessitino un ricovero in ospedale”, sottolinea il dottor Massimo Lazzeri, urologo di Humanitas.

“È grazie a questo tipo di analisi predittive che sarà possibile fornire non soltanto ai clinici ma anche al management sanitario, fondamentali linee di indirizzo per garantire da una parte la rimodulazione delle attività sanitarie secondo valutazioni di appropriatezza e di priorità clinica, dall’altra un ripristino graduale e progressivo di tutte le attività ambulatoriali e di ricovero programmato: obiettivo adesso imperativo per tutte le strutture sanitarie”, sottolinea la dottoressa Elena Azzolini della Direzione Medico Sanitaria.

“Questi studi osservazionali sono molto importanti perché generano ipotesi di possibili trattamenti, vanno comunque testati con studi interventistici e randomizzati”, conclude il professor Maurizio Cecconi, Direttore del Dipartimento Anestesia e Terapie Intensive.

Specialista in Urologia
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