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L’importanza della specializzazione nella chirurgia oncologica

L’esperienza del chirurgo e la capacità della struttura di gestire complessità ed imprevisti contano, e non poco, nel determinare l’esito della chirurgia

In tutto il mondo, la medicina sta andando a grandi passi verso la concentrazione di interventi e procedure complesse in poche strutture ad altissima specializzazione. Le piccole realtà territoriali sono indicate come riferimento solo per quei trattamenti di “routine” per i quali non vale la pena far spostare i pazienti sul territorio. L’Italia è invece una realtà frammentata sotto molti aspetti, compreso quello sanitario, che è gestito su base regionale. Questo porta talvolta ad un basso livello di specializzazione delle équipe chirurgiche, che spesso fanno pochi interventi all’anno e non possono acquisire l’esperienza necessaria per gestire correttamente le problematiche che si possono presentare durante interventi complessi, come possono essere anche (ma non solo) quelli che riguardano la chirurgia toracica. Ne abbiamo parlato con il dottor Marco Alloisio, responsabile di Chirurgia toracica e generale di Humanitas Cancer Center.

Dottor Alloisio, perché è importante scegliere un team chirurgico che abbia una buona esperienza?

La chirurgia è un lavoro per il quale serve una grande precisione ed esperienza. Si tratta spesso di eseguire gesti standard, che si ripetono in maniera simile in tutti i pazienti che necessitano dello stesso tipo di intervento. Questa ripetitività permette al chirurgo esperto di acquisire una certa sicurezza che, sulla base dell’esperienza, ha la duplice utilità di rendere il suo gesto più sicuro e di permettergli di gestire al meglio eventuali imprevisti. Anche le complicazioni, che si possono talvolta presentare a causa della complessità di alcuni interventi e della impossibilità di prevedere e pianificare completamente alcuni di essi in fase preoperatoria, sono meglio gestite dal chirurgo esperto. Inoltre, il chirurgo che si trova ad affrontare con maggiore frequenza le stesse situazioni può avere l’opportunità di ideare e sperimentare in sicurezza tecniche innovative e di sviluppare, in collaborazione con chi fa ricerca in questo senso, le tecnologie del futuro, come è stato negli ultimi anni per la chirurgia mininvasiva e per quella robotica, senza considerare la necessità di istruire i medici più giovani in modo che possano a loro volta acquisire la capacità di operare autonomamente.

Anche le dimensioni del centro e della casistica affrontata hanno la stessa importanza?

Certamente. Infatti, le fasi precedenti e seguenti all’operazione chirurgica vera e propria sono altrettanto complesse e delicate. La fase diagnostica deve essere effettuata con tecnologie all’avanguardia ed operatori esperti, capaci di individuare anche lesioni molto piccole; inoltre, la scelta del tipo di intervento dovrebbe essere effettuata collegialmente dall’intero team che si occupa della patologia diagnosticata, proprio per garantire una pianificazione adeguata. Nella fase postoperatoria l’esperienza rende un centro multispecialistico molto più idoneo a gestire in maniera equilibrata tutti quei trattamenti non chirurgici (chemioterapia, radioterapia,ecc) che sono sempre più indispensabili per completare e rendere più stabili i risultati conseguiti in camera operatoria. Sarebbe quindi auspicabile che il trattamento chirurgico dei casi più complessi fosse autorizzato solo in centri che hanno queste caratteristiche e che possono vantare almeno una soglia minima di interventi all’anno. Il mio team, per esempio, ha all’attivo in media più di 350 interventi all’anno su tumori polmonari nel corso degli ultimi cinque anni; mi rendo conto che questo non sia possibile in alcune realtà con bacini di utenza più limitati, ma senza un minimo di interventi l’anno è molto difficile acquisire l’esperienza necessaria a gestire complicazioni e criticità che interessano il singolo paziente. Le linee guida internazionali parlano di cento interventi (per tipologia) ma questo sarebbe difficilmente attuabile in un panorama molto frammentato come quello del nostro paese. Diciamo solo che sarebbe già molto utile porre questo limite a quota cinquanta.

Quindi lei è favorevole in assoluto alle indagini statistiche che misurano le performance dei vari centri ed alle “classifiche” che ne derivano?

Fino ad un certo punto. Penso che siano utili in ogni caso ma che potrebbero essere ampiamente migliorate, se si tenesse conto di tutti i fattori ed i parametri che concorrono davvero alla qualità del lavoro svolto dai vari team, come numero e complessità degli interventi portati a termine ed età e comorbidità (ovvero presenza contemporanea di altre malattie importanti) dei pazienti. In questo modo, lo svolgimento degli interventi più complessi, in caso di successo, verrebbe “premiato” anziché essere penalizzato come talvolta capita attualmente, perché sarebbe davvero riconosciuto il merito di provare a migliorare gli standard chirurgici e di assistenza, in condizioni di maggiore criticità.

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