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COVID-19 e deficit di vitamina D: l’effetto sui pazienti ospedalizzati

Deficit di vitamina D e sintomi più gravi da infezione COVID-19 sembrano avere una relazione, che però non cambia se si assume più vitamina D. È il risultato di uno studio pubblicato sull’organo ufficiale della Società Italiana di Endocrinologia, Journal of Endocrinological Investigation, condotto dal professor Gherardo Mazziotti, endocrinologo di Humanitas e docente di Humanitas University, e dal professor Andrea Lania, responsabile di Endocrinologia e Diabetologia di Humanitas e docente di Humanitas University, realizzato in collaborazione con l’Unità di Medicina e Pneumologia diretta dal dottor Michele Ciccarelli, e di Pronto Soccorso e Medicina di Emergenza diretta dal dottor Antonio Voza. Lo studio si colloca all’interno dell’attuale dibattito sull’impatto del deficit di vitamina D sul decorso clinico di COVID-19. 

“Per la prima volta il nostro studio dimostra che il deficit di vitamina D può influenzare la severità della polmonite da Sars-CoV-2, ma solo quando è associato a un aumento della secrezione di paratormone, l’ormone che determina la concentrazione di calcio nel sangue» sottolinea il professor Mazziotti.  

Lo studio retrospettivo sui pazienti ricoverati

Obiettivo dello studio, condotto su 348 pazienti COVID-19 ricoverati all’ospedale Humanitas, è stato valutare retrospettivamente l’associazione tra livelli della vitamina D e decorso clinico della polmonite da COVID-19.
“Rispetto ad altri lavori pubblicati sull’argomento, abbiamo voluto approfondire il tema valutando non solo i livelli di 25idrossivitamina D (marcatore dello stato vitaminico D in ogni persona), ma anche i valori di paratormone, un parametro del bilancio del calcio che è in relazione inversa ai livelli di vitamina D. Questo ci ha permesso di avere una visione globale della severità dell’ipovitaminosi D e del suo impatto clinico”, spiega il professor Mazziotti.

“I pazienti ricoverati con COVID-19, all’ingresso in ospedale, avevano bassi valori di 25idrossivitamina D e, in un’elevata percentuale di casi, severa ipovitaminosi D (con valori di 25idrossivitamina D inferiori a 12 ng/ml). Molti pazienti avevano anche elevati valori di paratormone associati quasi sempre a bassa concentrazione di calcio nel sangue, configurando la condizione clinica definita ‘iperparatiroidismo secondario’. In questi casi, sono stati riscontrati sia un decorso maggiormente sfavorevole della polmonite da COVID-19 in termini di maggiore severità dell’insufficienza respiratoria all’esordio, sia una maggiore probabilità di essere sottoposti a ventilazione durante l’ospedalizzazione”, continua il professore.

I risultati

Secondo i ricercatori, gli elevati valori di paratormone potrebbero contribuire a potenziare gli effetti negativi diretti dell’ipovitaminosi D sul sistema immunitario, oltre a possibili effetti diretti negativi dell’ormone sull’apparato cardiovascolare e respiratorio, già precedentemente osservati in pazienti cardiopatici affetti da scompenso cardiaco. Tuttavia, la somministrazione di vitamina D nei pazienti con COVID-19 non ha mostrato benefici in termini di riduzione della gravità dei sintomi

“Tra le ipotesi, il fatto che alla correzione della carenza di vitamina D non corrisponda un cambiamento dei livelli di calcio, e quindi dell’iperparatiroidismo secondario persistente. Saranno necessari ulteriori studi per valutare l’efficacia di un trattamento farmacologico finalizzato non solo a correggere il deficit di vitamina D, ma anche a ridurre i livelli di paratormone, che come dimostrato dal nostro studio hanno un effetto indipendente sul decorso clinico di COVID-19”, conclude il professor Mazziotti.

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