Per combattere questa malattia cronica e invalidante, è necessario integrare le cure con un approccio psicologico che tenga conto della qualità della vita.
Non è sufficiente il solo approccio clinico-terapeutico per combattere una malattia cronica e invalidante come la cirrosi biliare primitiva, una patologia autoimmune rara, ma aggressiva e progressiva che può, addirittura, portare al trapianto di fegato. E’ necessario anche un approccio psicologico che “misuri” la qualità della vita nell’ottica di una visione del paziente a 360 gradi. E il metodo utilizzato deve essere standard e validato. E’ quanto avviene presso il Centro MAF (Malattie Autoimmuni del Fegato) di Humanitas, punto di riferimento nazionale per le malattie rare che, in collaborazione con un team di psicologi dell’Università Bicocca di Milano, ha eseguito uno studio che ha permesso di validare un questionario psicologico realizzato ad hoc, poi pubblicato su una rivista scientifica e disponibile così per ogni clinico epatologo come strumento in più per valutare, tra l’altro, l’andamento della malattia e, molto importante, l’efficacia della terapia. Ma non solo. Nuove prospettive giungono anche sul fronte della sperimentazione di farmaci. Dopo anni di attesa stanno, infatti, per partire trials con farmaci che agiscono all’origine del meccanismo immuno-patogenetico della cirrosi biliare primitiva e non solo “a valle” come avviene oggi con l’unico farmaco a disposizione (acido ursodesossicolico) che, fra l’altro, in un sottogruppo di pazienti dà una risposta incompleta. Ne parliamo con il dottor Pietro Invernizzi, responsabile del centro MAF di Humanitas e con il dottor Lorenzo Montali, ricercatore di Psicologia Sociale all’Università Bicocca di Milano.
Dottor Invernizzi, nella cirrosi biliare primitiva è importante considerare anche l’aspetto psicologico? In che senso?
“Sì, nel senso che ogni malattia cronica incide sulla qualità della vita dei pazienti influenzandone l’aspetto lavorativo, sociale e famigliare. Proprio questa visione globale della malattia, a 360°, sotto ogni punto di vista, ha permesso lo sviluppo di questionari con domande sulla capacità di concentrazione, attività lavorativa, affaticamento, paure, eccetera del paziente per determinare lo stato della sua qualità della vita. Questo approccio da una parte consente di seguire al meglio il paziente, anche dal punto di vista psicologico se necessario, dall’altro diventa uno strumento in più nella gestione clinica per valutare l’efficacia di un farmaco nuovo o riconosciuto. Ma è necessario che il questionario sia studiato appositamente sulla specifica malattia e validato scientificamente. Questo è avvenuto grazie alla collaborazione con esperti psicologi dell’Università Bicocca di Milano guidati dal dottor Lorenzo Montali”.
Dottor Montali, qual è il valore aggiunto di un questionario ad hoc e validato per la cirrosi biliare primitiva?
“Per questa specifica malattia, con caratteristiche peculiari, era necessario mettere a punto un questionario ad hoc che ne cogliesse ogni sfaccettatura. Solo in questo modo si poteva efficacemente valutare il suo impatto sulla qualità della vita. Il questionario, chiamato PBC-40, composto da 40 domande cui il paziente risponde in modo autonomo, è nato in inglese. Si trattava, quindi, di predisporne una versione adeguata per i pazienti italiani. Questo comportava, ovviamente, la traduzione dello strumento, ma, soprattutto, la sua somministrazione a un campione di pazienti italiani per verificarne, da un punto di vista metodologico, l’adeguatezza nel nostro contesto culturale. Ed è quello che abbiamo fatto attraverso uno studio che ha consentito, inoltre, di ‘ottimizzare’ questo strumento. Con una serie di analisi statistiche abbiamo, infatti, evidenziato che il questionario funzionava in maniera più adeguata riducendo il numero delle domande, pur mantenendo inalterati gli ambiti indagati. In questo modo ora abbiamo uno strumento più breve e, quindi, più facile da somministrare ai pazienti, che si chiama PBC-27 perché composto da 27 domande, invece delle 40 iniziali, senza che si sia persa alcuna informazione utile. Dato che lo studio ha coinvolto una equipe internazionale, ne abbiamo anche validato una versione in lingua giapponese e ora stiamo confrontando i dati relativi alla qualità della vita in popolazioni così diverse come quella italiana e quella giapponese. Lo studio, poi, è stato pubblicato ed è diventato uno strumento disponibile per ogni epatologo, consultabile e scaricabile anche dallo stesso sito di Humanitas”.
Dottor Invernizzi, si è già rivelato efficace?
“Ha già consentito di escludere un aspetto controverso della malattia, la ‘fatigue’ ovvero l’affaticamento, fatica, stanchezza. Esperti inglesi, infatti, sostenevano che la ‘fatigue’ fosse un sintomo specifico della malattia, mentre noi non ne eravamo convinti. Il questionario, proposto a pazienti malati e sani come confronto, sia italiani che giapponesi, ha permesso di escludere che la stanchezza sia legata specificatamente alla malattia non incidendo, quindi, sulla qualità della vita”.
E, inoltre, stanno iniziando sperimentazioni di nuovi farmaci innovativi?
“Tra settembre e l’inizio del 2012 inizieranno presso il centro MAF di Humanitas ben tre sperimentazioni di farmaci in grado di combattere la malattia all’origine e non solo ‘a valle’ come avviene finora. La cirrosi biliare primitiva, infatti, colpisce le vie biliari provocando colestasi. Il sistema immunitario aggredisce le cellule biliari rendendo difficoltoso il drenaggio della bile dal fegato nell’intestino, causandone, quindi, un ‘ristagno’ nel fegato. La malattia, seppur rara, può portare a cirrosi fino al trapianto del fegato o, addirittura alla morte. L’acido ursodesossicolico, unico farmaco finora disponibile, rallenta la progressione della malattia, ma agendo, purtroppo, solo ‘a valle’ del meccanismo di danno, ovvero sulla colestasi, cioè non sul perché le ‘tubature’ vengono danneggiate. E, inoltre, non risulta efficace per il 30-40% dei pazienti, per cui al momento non esiste un’altra cura perché i farmaci immunosoppressori, che agiscono sul sistema immunitario e potrebbero essere utilizzati, in realtà, ‘annullano’ tutto con effetti collaterali notevoli e senza un costo/beneficio di rilievo. Le nuove prospettive in sperimentazione, invece, consentono un’alternativa per questi pazienti e, inoltre, agiscono sulla malattia all’origine, cioè a livello del sistema immunitario e in modo mirato, cioè ‘bersagliando’ le sole cellule malate. Le tre sperimentazioni riguardano: il farmaco biologico anticorpo anti-CXC110, l’anti-interleuchina 12 ed uno stimolatore del recettore nucleare FXR”.
A cura di Lucrezia Zaccaria
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