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Malattie infiammatorie croniche intestinali: uno studio conferma l’efficacia del biosimilare di infliximab

L’incidenza delle malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) è aumentata di circa venti volte negli ultimi dieci anni. La terapia farmacologica punta a indurre la remissione, evitando la ricomparsa dei sintomi e la progressione della malattia verso complicanze che necessitano il ricorso alla chirurgia.

L’utilizzo di farmaci biosimilari potrebbe contribuire al trattamento di questa patologia a un costo inferiore rispetto a quello dei biologici, coniugando sostenibilità del sistema sanitario e qualità della terapia.

Lo studio PROSIT-BIO, recentemente pubblicato sulla rivista Inflammatory Bowel Diseases, ha coinvolto 31 centri italiani e 547 pazienti (di cui 27 pediatrici) con colite ulcerosa e malattia di Crohn, cui è stato somministrato il CT-P13,  biosimilare di infliximab. Lo studio della pratica clinica quotidiana ha permesso di confermare un elevato profilo di sicurezza ed efficacia sia nei pazienti nuovi al trattamento con un farmaco biologico, sia in coloro già esposti ad altri anticorpi monoclonali, dimostrando così la sovrapponibilità tra infliximab originator e il suo biosimilare.

Il ruolo dei farmaci biologici

Negli ultimi 15 anni, la terapia delle MICI è stata rivoluzionata dall’entrata in prontuario dei farmaci biologici, anticorpi monoclonali che bloccano specifiche molecole responsabili dell’infiammazione intestinale. Purtroppo queste terapie comportano costi elevati dovuti alla ricerca, allo sviluppo e alla produzione su larga scala. Scaduto il brevetto di infliximab, primo anticorpo monoclonale introdotto per le MICI, EMA (Agenzia europea per i medicinali) ha approvato CT-P13, il suo biosimilare: dal punto di vista farmacologico è equivalente all’originator ma, essendo prodotto da cellule viventi, ha una struttura molecolare che può variare leggermente, senza tuttavia alterare il profilo di efficacia, sicurezza e immunogenicità.

La totale equivalenza tra biosimilare e originator

Se all’inizio i clinici hanno avuto un atteggiamento cauto, interrogandosi sull’effettiva equivalenza tra biosimilare e originator, questa percezione con il tempo si è capovolta, quando il biosimilare CT-P13 è entrato nella pratica clinica e gli specialisti hanno cominciato a fare esperienza sul campo. I vari studi tuttora in corso o pubblicati di recente, come PROSIT-BIO, hanno avvalorato la totale equivalenza in termini di efficacia, sicurezza e immunogenicità, convincendo la comunità dei gastroenterologi. Lo dimostrano le due web survey condotte da ECCO (European Crohn’s Colitis Organization), su medici esperti di MICI e prescrittori di terapia biologica: se, nel 2013, solo il 12,6% si sentiva molto o del tutto a proprio agio nell’utilizzo dei biosimilari e il 6% li riteneva intercambiabili con il farmaco di riferimento, nel 2015 le percentuali sono salite rispettivamente al 46,6% e al 44,4%. All’inizio del 2017 anche ECCO ha aggiornato la propria posizione, in un nuovo Position Paper che elimina ogni timore residuo sull’uso dei biosimilari nelle MICI, sia per i pazienti naïve sia per chi è già in trattamento con originator, quando la loro bioequivalenza è garantita da EMA.

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